di Donatella Massara
La Comunità di storia vivente accoglie alcune donne impegnate nella ricerca sulla storia soggettiva ed è stata promossa nel 2006 da Marirì Martinengo, già fondatrice della Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica.
Questo libro attinge, rielaborandole, con lo sguardo della storia vivente, alle storie personali delle autrici e nasce da una profonda riflessione collettiva durata anni.
I racconti non sono quindi semplici spunti autobiografici, ma nascono dall’incontro con altre donne, mirato, attraverso la relazione politica, a fare uscire allo scoperto, per metterlo in parole, il nucleo più resistente emozionalmente, quello condizionante lo svolgimento nel tempo, della nostra storia. Il libro mi è piaciuto veramente molto. Consiglio di non farselo sfuggire. Anche se la veste grafica è poco attraente, fa pensare a un noioso lavoro politico che magari non abbiamo voglia di leggere. Invece è brillante come un romanzo.
E c’è da ringraziare Luciana Tavernini per l’amorosa e attenta lettura dei testi. Giovanna Palmeto, a questo proposito, riconosce a Luciana Tavernini “la sapiente e generosa cura con cui ha saputo porsi con lei in relazione di ascolto, confronto e riflessione”.
Ci sono scritti come il suo e quello di Marie-Therese Giraud che sono dei gioielli preziosi ricavati, parola per parola da una confessione con se stesse che solo la presa di distanza da sè hanno fatto diventare una riflessione da cui imparare, apprendere, cercare la mediazione per storie nostre, magari molto differenti. In questa differenza da un’altra che si è resa disponibile attraverso percorsi interiori meditati, ho visto la nascita del pensiero, della riflessione che ci fa capire di più il mondo in cui siamo vissute e viviamo.
Prendo una citazione di Simone Weil dallo scritto di Giovanna Palmeto perchè mi ha colpito particolarmente. Proviene da “La prima radice”, testo che conosco bene e il cui senso è bene concentrato in questa frase: “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è subordinata […] C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire”.
Mi riconosco in questa frase ampia. E’ questa vibrazione che ha a che vedere con l’erotismo, con la nostra vita passata, con la corrispondenza di amorosi sensi. Ma a volte non ci si sceglie, il vedersi e stare in relazione accade. Nella vita vera non c’è preferenza, come in una classe, una sala da ballo, un concorso. Credo nel lasciare che l’accadere avvenga senza pilotarlo con le convenienze. La ‘preferita’ suona come una scelta fredda, razionale, volutamente ‘cattiva’ che seleziona. E questa selezione la si subisce e la si esercita. Non mi piace. Quindi ognuno di questi racconti lo accolgo. Non ho preferenze. Ho ammirato e capito molto dai racconti di Marie Therese Giraud e Giovanna Palmeto. C’è nei loro racconti quella consonanza di soggettivo e oggettivo, che cita Laura Minguzzi da Chiara Zamboni, la nozione hegeliana di coincidenza di astratto e concreto. Io la chiamo capacità di giudizio sintetico, di legame semplice. Lo vedo in quei racconti precisi, che ho citato, ricchi di legami, dove fatti e valutazioni cadono insieme, come quando la punta della matita sul foglio disegna con una minima pressione i segni della mente. Non amo le troppe spiegazioni, l’intrigo delle identificazioni, chiamare una situazione per spiegarne un’altra che in quella starebbe nascosta. La biografia riguadagnata nel ricordo, nell’analisi, nella mossa di un’altra che ricade su di noi, quando avviene, in un’apertura, lascia posto a chi legge per lavorare di suo.
Il racconto di Marirì Martinengo mi ha dato il respiro di un tempo e di una società di relazioni che mi hanno incuriosita.
Il racconto di Laura Modini lo conoscevo già, l’avevo ascoltato letto da lei e mi aveva emozionata. La scrittura mi ha tolto quel di più di partecipazione e adesso penso che gli occorrano molte più parole. Ecco, leggere mi ha dato la certezza che il suo racconto chiede di essere approfondito, non può essere condensato, come una preghiera, recitata in nome dell’amore per sua madre.
Il racconto di Laura Minguzzi mi ha fatto entrare dentro un mondo di cose, luoghi, azioni, movimenti. Anche la sua storia già conoscevo, la morte di sua madre ancora mi ha commossa. Questa volta il fantasma di sua madre, che non ho mai visto in fotografia, ha preso le fattezze di Domitilla Colombo.
L’ho vista a teatro recitare “La sposa di Ade”, proprio poche ore prima di leggere il racconto di Laura. Domitilla ha recitato un lungo monologo dove racconta la storia, le probabili emozioni, i possibili pensieri di una giovane sposa, abbandonata dal futuro marito, il giorno delle nozze, che, con indosso il suo abito bianco si getta, in quello stesso giorno, dal balcone di viale Monza a Milano. È una storia realmente accaduta su cui l’autore, Danilo Caravà, nipote della sposa mancata, ha lavorato, dissotterrando il ricordo che lo ha accompagnato fin da bambino. Ecco per me la madre di Laura è diventata quella sposa in abito bianco di seta, con le scarpette d’oro che la bella amica Domitilla ha interpretato.
Necessarie mappe dei concetti che trasferiscono senso politico alla storia vivente in Milagros Rivera Garretas e in Marina Santini. “La storia vivente è quella storia che continua a vivere dentro di noi” così l’ha definita all’origine Marirì Martinengo, inventrice di questa pratica che è stata raccolta da Milagros Rivera Garretas; se una è la madre della storia vivente l’altra è la sua madrina. Intenso il testo di Luciana Tavernini che approda, dopo una lunga narrazione su sua madre, suo padre e lei stessa, al concetto di trasformazione della necessità in libertà. Questo è il senso dell’agire delle nostre madri. Riprendono le storie con il gruppo di storia vivente di Foggia, aperto da poco tempo ma già pronto a raccontare per coinvolgere chi legge. Dopo che le amiche della Comunità di storia vivente di Milano ci hanno fatto strada, illuminando le braccia della pianta della vita dove trasferiamo i nostri ricordi, molte storie si avvicinano a comporre il quadro del fare comunità.